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Le novità della riforma lavoro – i licenziamenti individuali

17/10/2012

DISCIPLINA DEI LICENZIAMENTI INDIVIDUALI

La nuova normativa riforma sensibilmente la disciplina dei licenziamenti individuali, modificando sia l’art. 18 della legge 300/70 che la legge 604/1966.

La motivazione del licenziamento

La motivazione del licenziamento deve essere specificata nella stessa comunicazione del licenziamento, con ciò modificando sensibilmente la precedente disciplina che poneva in capo al lavoratore l’onere di richiedere le motivazioni del licenziamento e solo a fronte di tale richiesta l’obbligo del datore di lavoro di comunicarle.

Tale nuova formulazione lascia intendere che la contestuale specificazione delle motivazioni rappresenti un requisito essenziale e procedurale, la cui mancata indicazione, pertanto, inficerebbe la procedura di licenziamento (in proposito è opportuno distinguere il caso del licenziamento disciplinare, per il quale tale obbligo viene meno in quanto le motivazioni del licenziamento sono contenute nella lettera di contestazione disciplinare che avvia la procedura, poi conclusa col licenziamento).

Inoltre l’utilizzo del termine “specificazione” da parte del legislatore, obbliga ad una dettagliata e precisa indicazione delle motivazioni, che pertanto non possono essere indicate mediante formule generiche.

L’impugnazione del licenziamento

Fermo restando il termine di 60 giorni per l’impugnazione del licenziamento in via stragiudiziale, viene ridotto il successivo termine entro il quale il lavoratore deve proporre il ricorso giudiziario (ovvero chiedere la conciliazione o l’arbitrato) da 270 a 180 giorni.

Il nuovo tentativo di conciliazione per i licenziamenti “economici”

Un maniera contraddittoria rispetto a quanto disposto dalla legge 183/2010 (collegato lavoro), che aveva abolito l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione per le controversie di lavoro, la legge di riforma lo reintroduce, imponendolo come obbligatorio per i datori di lavoro che occupano in ciascuna sede più di 15 dipendenti (5 se imprenditori agricoli) o che ne occupino più di 15 nell’ambito dello stesso comune, o più di 60 complessivamente.

Tali datori di lavoro, prima di poter procedere al licenziamento del lavoratore, devono comunicare tale intenzione alla Direzione Territoriale del Lavoro competente (e per conoscenza al lavoratore), indicando nella stessa comunicazione le motivazioni del licenziamento e le eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore.

La D.T.L. deve quindi procedere, nei successivi 7 giorni, a convocare le parti (datore di lavoro e lavoratore) per procedere al tentativo di conciliazione ai sensi dell’art. 410 c.p.c.; in tale sede le parti potranno essere assistite dalle rispettive organizzazioni sindacali, da un avvocato o da un consulente del lavoro.

Il lavoratore, in caso di documentato impedimento, può chiedere la sospensione della procedura per un massimo di 15 giorni.

In sede di commissione di conciliazione si esaminano le eventuali soluzioni alternative al licenziamento e comunque si ricerca un accordo che possa evitare l’insorgere di una successiva controversia tra le parti.

La procedura di cui sopra deve concludersi entro 20 giorni dall’invio della convocazione da parte della D.T.L., salvo il caso in cui le parti, di comune accordo, chiedano una proroga per ricercare un accordo.

Solo se la procedura di conciliazione come sopra descritta fallisce o la D.T.L. non convoca le parti entro 7 giorni, il datore di lavoro può procedere al licenziamento.

In caso di soluzione positiva del tentativo di conciliazione, quindi con accordo raggiunto dalla parti, può essere applicata la nuova ASPI e il lavoratore può essere affidato ad un’Agenzia di somministrazione lavoro per favorirne il reimpiego.

Il comportamento tenuto dalle parti durante la fase di conciliazione, come desumibile dal verbale redatto dalla D.T.L. costituisce elemento di valutazione da parte del giudice nell’eventuale successiva controversia giudiziaria, ai fini della determinazione delle spese processuali e dell’indennità risarcitoria

Tutta la procedura sopra esposta trova applicazione esclusivamente per la fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo di tipo economico, restando pertanto escluse le fattispecie dei licenziamenti disciplinari (giusta causa o giustificato motivo soggettivo).

Resta sempre valida, comunque, la facoltà per il lavoratore di esperire il tentativo di conciliazione facoltativo prima di un’eventuale azione giudiziaria.

Effetto del licenziamento

La legge di riforma precisa che il licenziamento intimato a seguito di procedura disciplinare (ai sensi dell’art. 7, legge 300/70) o ai sensi dell’art. 7 della legge 604/1966 (nella nuova procedura modificata dalla legge di riforma), produce effetto dal giorno in cui è stata avviata la procedura.

Quanto sopra con l’evidente scopo di impedire comportamenti elusivi del lavoratore che, una volta appresa l’intenzione del datore di lavoro di procedere al licenziamento, potrebbe iniziare un periodo di malattia.

Un’eventuale sospensione degli effetti del licenziamenti è prevista esclusivamente in riferimento alle norme in materia di tutela della maternità/paternità o in caso di infortunio; in ogni caso l’eventuale periodo lavorato durante la procedura si considera preavviso lavorato.

Vigenza della “tutela obbligatoria”

Per le aziende al di sotto dei limiti dimensionali per i quali trova applicazione la “tutela reale”, continua a restare vigente l’art. 8 della legge 604/1966, che prevede, in caso di licenziamento intimato in assenza di una reale giusta causa o giustificato motivo, l’obbligo per il datore di lavoro di riassumere il lavoratore entro 3 giorni oppure di corrispondere un’indennità di importo compreso tra 2,5 e 6 mensilità.

Unica eccezione in cui opera la legge di riforma è quella del licenziamento nullo determinato da un motivo illecito determinante, fattispecie per cui troverà applicazione il nuovo articolo 18 così come riscritto dalla legge di riforma (reintegra con indennità di risarcimento), a prescindere dalle dimensioni dell’azienda.

Licenziamento illegittimo e tutela del lavoratore

La legge di riforma riscrive completamente l’art. 18 della legge 300/70, prevedendo un regime  sanzionatorio diversificato in caso di licenziamento illegittimo.

Il nuovo testo appare abbastanza cervellotico e francamente conferisce al giudice del lavoro un potere discrezionale eccessivo nella determinazione della sanzione da applicare caso per caso.

Il nuovo regime sanzionatorio può essere distinto in tre fattispecie principali:

– il licenziamento discriminatorio;

– il licenziamento disciplinare;

– il licenziamento per motivo oggettivo;

Il licenziamento discriminatorio

Per tale si intende il licenziamento che sia riscontrato come determinato da motivo illecito determinante o comunque nullo, rientrando in tale fattispecie anche il licenziamento verbale. Per tale fattispecie la normativa resta sostanzialmente invariata, prevedendo l’obbligo di reintegra e di risarcimento del lavoratore.

Nelle casistiche di motivi illeciti determinanti il licenziamento, rientrano le ragioni razziali, di handicap, di credo politico o religioso, di attività sindacale, orientamento sessuale, convinzioni personali, matrimonio, maternità, ecc.

Il lavoratore ha facoltà di optare, in luogo della reintegra sul posto di lavoro, per un’indennità nella misura di 15 mensilità (in proposito la nuova norma chiarisce che la risoluzione del rapporto di lavoro opera dal momento della richiesta delle 15 mensilità da parte del lavoratore, ciò in contro-tendenza rispetto alla giurisprudenza prevalente che individuava nel momento del pagamento delle 15 mensilità la risoluzione del rapporto di lavoro).

La determinazione del risarcimento viene affidata al giudice, che la deve quantificare tenendo conto del periodo intercorso tra il licenziamento e la reintegra e delle somme eventualmente percepite, medio tempore, dal lavoratore per lo svolgimento di altra attività lavorativa, con comunque un limite minimo di 5 mensilità; oltre al risarcimento del lavoratore, il datore di lavoro deve essere condannato al versamento dei contributi previdenziali (nulla dicendo per le eventuali sanzioni, che si presumono però dovute)

Altro elemento importante introdotto dalla legge di riforma è la retribuzione da prendere a riferimento per la determinazione del risarcimento al lavoratore; il riferimento infatti viene fissato “nell’ultima retribuzione globale di fatto”, con ciò escludendo dal computo gli eventuali aumenti retributivi che il lavoratore avrebbe potuto maturare nel periodo del licenziamento.

Il licenziamento disciplinare

Per tale fattispecie la norma individua tre distinti regimi sanzionatori:

1. Il primo caso ricorre quando il giudice accerti l’insussistenza dei motivi che giustificano il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, ovvero quando riscontri che la mancanza del lavoratore sia punibile con una sanzione minore in base al CCNL di categoria; in tal caso il giudice annulla il licenziamento e ordina quindi la reintegra del lavoratore, in più condannando il datore di lavoro ad un risarcimento riferito all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello della reintegra, con un massimo di 12 mensilità, dedotto quanto eventualmente percepito dal lavoratore per lo svolgimento di altra attività lavorativa e anche quanto il lavoratore avrebbe potuto percepire se si fosse “dedicato con diligenza” alla ricerca di un altro lavoro.

Quest’ultima formula è francamente sconcertante, rimettendo nelle mani del giudice un enorme potere discrezionale, mancando completamente qualsiasi parametro oggettivo per determinare la diligenza o meno del lavoratore nel ricercare una nuova occupazione, per non parlare del riferimento al quantum avrebbe potuto guadagnare.

Oltre a quanto sopra, il giudice condanna il datore di lavoro al versamento dei contributi previdenziali, precisando in tal caso che gli stessi devono essere maggiorati degli interessi legali, ma non delle sanzioni (con una curiosa distinzione rispetto alla fattispecie del licenziamento nullo).

Altro elemento che solleva grosse perplessità è il riferimento ai Contratti Collettivi Nazionali come parametro per il giudice; infatti i contratti dei diversi comparti prevedono sanzioni diversi per uguali fattispecie, con ciò determinando una palese discriminazioni tra lavoratori che, a parità di infrazione, si potrebbero trovare sanzionati con un licenziamento legittimo o meno.

2. Il secondo caso ricorre in tutti gli altri casi, diversi da quelli del punto 1 (distinzione francamente molto vaga) in cui il giudice accerti la non ricorrenza degli estremi della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo. In tal caso il giudice si limita a condannare il datore di lavoro ad un risarcimento da un minimo di 12 a un massimo di 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, senza reintegra nel posto di lavoro e con conferma del licenziamento dalla data di intimazione. Nella determinazione della misura dell’indennità il giudice deve tener conto dell’anzianità del lavoratore, del numero dei dipendenti, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti.

3. Il terzo caso riguarda i vizi formali della procedura disciplinare, ovvero il licenziamento intimato in violazione del requisito di motivazione o altra mancanza formale rispetto alla procedura prevista dall’art. 7 della legge 300/70. In tal caso in giudice dichiara comunque risolto il rapporto di lavoro, pur dichiarando inefficacie il recesso!!, e condanna il datore di lavoro ad un risarcimento compreso tra 6 e 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, con riferimento alla gravità della violazione del datore di lavoro.

Tale ultimo caso rovescia completamente la disciplina previgente per le aziende soggette alla tutela reale, per le quali valeva l’obbligo di reintegra; paradosso ancor maggiore è il fatto che per le aziende minori, invece, ai sensi della legge 604/1966, si applicherebbe la tutela reale di diritto comune, che comporta l’obbligo di reintegra.

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Anche per questo caso è necessario distinguere quattro diverse fattispecie:

1. Nella prima categoria rientrano i licenziamenti intimati in assenza di un difetto reale che giustifichi il licenziamento per inidoneità fisica o psichica, i licenziamenti intimati senza stato superato il periodo di conservazione del posto per malattia, infortunio, gravidanza o puerperio, o per “manifesta insussistenza” del motivo organizzativo/produttivo indicato dal datore di lavoro.

In tale fattispecie il giudice annulla il licenziamento ed ordina la reintegra del dipendente, il quale ha anche diritto di un risarcimento non superiore a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, dedotto quanto percepito dal lavoratore, medio tempore, per lo svolgimento di altra attività lavorativa o di quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi diligentemente alla ricerca di un altro impiego.

Tale nuova norma genera un considerevole problema in riferimento al licenziamento intimato durante il periodo di assenza in cui ha diritto alla conservazione del posto di lavoro ai sensi dell’art. 2110 del codice civile (malattia, infortunio, gravidanza, puerperio); infatti in base al testo della legge di riforma tale licenziamento è “annullabile”, mentre lo stesso, precedentemente, era nullo ab origine; quindi a questo punto come deve intendersi tale licenziamento, nullo o annullabile?

2. Nella seconda categoria rientrano i licenziamenti intimati in assenza di giustificato motivo oggettivo, come nel caso precedente, ma in maniera meno “manifesta”.

In tale fattispecie (che non è chiaro come distinguere dalla precedente), al lavoratore non spetta la reintegra, ma un risarcimento compreso tra 12 e 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto (da determinare tenendo conto dell’anzianità del lavoratore, del numero dei dipendenti, delle dimensioni dell’attività, del comportamento e delle condizioni delle parti). In pratica tale regime sanzionatorio è speculare a quello previsto per i licenziamenti disciplinari, nelle “altre ipotesi” di mancanza del giustificato motivo o della giusta causa.

3. Nella terza categoria rientrano quei licenziamenti per i quali emerga in corso di giudizio, su richiesta del lavoratore, la natura discriminatoria o disciplinare; in tal caso si applicano le maggiori tutele previste per i licenziamenti discriminatori o disciplinari.

4. Nella quarta categoria rientrano i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo intimati in difetto del requisito della motivazione obbligatoria o senza l’esperimento del tentativo di conciliazione se licenziamenti economici.

Per questi licenziamenti trova applicazione la stessa disciplina prevista per i licenziamenti disciplinari inefficaci in quanto viziati nella procedura formale (quindi non c’è reintegra, ma solo un risarcimento compreso tra 6 e 12 mensilità in base alla gravità della violazione).

La revoca del licenziamento

Altra significativa novità introdotta nella legge di riforma consiste nella possibilità offerta al datore di lavoro, si revocare, entro 15 giorni dalla ricezione dell’impugnativa inviata dal lavoratore, il licenziamento intimato.

In caso di revoca, non si applicano al datore di lavoro le sanzioni previste dalla legge.