Il sistema della cassa integrazione in Italia: è ancora sostenibile?
Dal sito della Segreteria Nazionale Fesica www.fesica.it
La crisi attuale che riversa ormai da qualche anno ha sollevato una questione che poteva essere presa in esame preventivamente prima che il fenomeno si sviluppasse in maniera irreversibile: quella della gestione delle politiche passive. La spesa per gli ammortizzatori sociali è esplosa in questi anni della crisi e in buona parte a causa di meccanismi automatici. Secondo gli ultimi dati dell’Eurostat, nel 2011 nell’Europa a 27 circa il 2% del Pil è stato speso per le politiche del lavoro. Della spesa totale, il 63,5% è stato indirizzato verso le “politiche passive” (come le indennità di disoccupazione), mentre il 26% sulle misure di “politica attiva” per il lavoro (come la formazione professionale). Nello stesso anno, in Italia, la percentuale di Pil destinata complessivamente alle politiche occupazionali è stata pari all’1,36% del Pil, di cui l’80% per le indennità (Cassa integrazione guadagni inclusa) e soltanto il 18% per le politiche attive. In Italia, dunque, si registrano minori investimenti in tutte quelle politiche che consentirebbero una più rapida transizione da un posto di lavoro a un altro, da una professionalità meno richiesta sul mercato a una più richiesta, e invece assistiamo a una maggiore concentrazione di risorse destinate ai supporti occupazionali passivi. La Cassa integrazione, estesa ulteriormente nel 2009 con la Cig in deroga, è uno dei capisaldi di questo sistema di welfare squilibrato, che spesso fa il bene di imprese fallite piuttosto che dei lavoratori o piuttosto che ricercare un sistema di riconversione di una politica passiva a una attiva. La questione veramente preoccupante è che molte imprese chiedono e ottengono di poter attingere alla Cig per i dipendenti anche in casi in cui non vi è alcuna ragionevole prospettiva di ripresa del lavoro nella stessa azienda. In sostanza vengono retribuite persone che non lavorano e non si fa nulla per riattivare un meccanismo di produzione. C’è chi pensa che esiste una logica che vorrebbe che si procedesse alla chiusura dell’azienda, e che per i lavoratori si attivassero un buon trattamento di disoccupazione e un servizio efficiente di assistenza intensiva per il reperimento di un nuovo lavoro perchè attivando la Cassa integrazione i lavoratori non vengono incentivati a cercare una nuova occupazione regolare. In questo modo la Cassa integrazione viene utilizzata per nascondere situazioni di sostanziale disoccupazione: ciò, oltre a comportare un cattivo uso dei soldi pubblici produce anche un danno grave al lavoratore interessato. Il governo attuale si propone di riformare la questione partendo dalla revisione dei criteri di concessione ed utilizzo delle integrazioni salariali (la cassa integrazione potrà essere accessibile solo dopo l’esaurimento di altre possibilità ) con l’obiettivo di creare un sistema che non debba far ricorso a risorse provenienti dalla fiscalità generale ma favorendo una riduzione strutturale del cuneo fiscale per le aziende che non espellono manodopera. Un buon punto su cui lavorare ma a nostro avviso c’è la forte necessità di ripensare all’intero sistema che è risultato obsoleto, che ha fallito e che si è dimostrato inadatto e deleterio nel suo utilizzo. Un sistema nuovo che rientri in un ottica di ammortizzamento non solo sociale, ovvero non nell’abbandonare il lavoratore, ma neppure l’utilizzo di un impegno economico che in qualche modo sia soltanto di ‘accompagnamento’ allo stato fallimentare. Perché questo impegno economico non potrebbe trasformarsi in un sistema di incentivazione che risollevi le imprese e quindi anche i lavoratori di cui ne fanno parte?