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Il paese reale e il governo virtuale

28/06/2012

In questi giorni emerge sempre più la sensazione che ci siano ben due crisi economiche che ci investono.

Una è quella di cui parlano i giornali e le istituzioni: è fatta di spread e indici di borsa che salgono e scendono, di notizie sui grandi elogi di cui viene ricoperto il primo ministro Monti nei suoi incontri internazionali, dei blitz della Guardia di Finanza alla caccia di evasori, del grande impegno del nostro governo per “non farci fare la fine della Grecia”, questo spauracchio che viene sempre evocato di fronte a chiunque provi a muovere mezza critica alle misure adottate, un po’ come si fa con i bambini: “se fai i capricci arriva il fantasma della Grecia e ti porta via tutti i giochi”.

Viene quasi il sospetto che per qualcuno la drammatica situazione del popolo greco sia una gran fortuna: se non ci fossero i greci ridotti alla fame verrebbe meno un formidabile strumento di propaganda per far sopportare gli enormi sacrifici che ci aspettano.

Generalmente l’altro argomento utilizzato dal nostro primo ministro, anche questo un po’ infantile per la verità, è la minaccia di andarsene: se continuate a criticare me ne vado e vi lascio fare la fine della Grecia; anche in questo caso tornano alla mente ricordi di infanzia, quando l’amico che aveva portato il pallone, al secondo invito a passare la palla, sbuffava e minacciava di andarsene portandosela via se non era libero di intestardirsi in infiniti dribbling.

L’altra crisi è quella che vive la gente tutti i giorni sulla propria pelle: è fatta di licenziamenti e cassa integrazione, di commesse pubbliche non pagate alle imprese, di bollette che aumentano, della benzina a 2,00 euro al litro e, fatto più drammatico di tutti, di suicidi.

Colpisce soprattutto l’indifferenza con cui viene trattato questo fenomeno: i giornali si limitano generalmente a dare notizia dell’ultimo suicidio e ogni tanto a tenere il conto totale; da parte delle istituzione un’incredibile indifferenza.

Anche in una dichiarazione rilasciata sull’argomento, il premier Monti non ha mancato di fare riferimento al suo parafulmine: in Grecia, ha detto, “ci sono stati 1725 suicidi, questo è quello che in Italia cerchiamo di invertire”; insomma se in Italia ancora non siamo arrivati al record greco dobbiamo ringraziare l’opera del governo.

L’altro dato significativo che emerge, è che istituzioni e mass media sono per lo più d’accordo nel raccontarci che l’unica strada per uscire dalla crisi è quella imboccata dal governo: ovvero più tasse, più flessibilità nel lavoro, più privatizzazioni, più liberismo, tagli alle spese, intendendo per tali non gli infiniti sprechi che caratterizzano l’Italia, ma le spese sociali.

Un dubbio dovrebbe sorgere spontaneo: la ricetta del governo non è nient’altro che quello che ci è stato propinato negli ultimi 20 anni (ricordate i famosi sacrifici per “entrare in Europa”?); ci avevano raccontato che quelle misure ci avrebbero garantito sicurezza e prosperità, che l’euro ci avrebbe arricchiti.

Ricordiamo ancora gli slogan: più mercato e meno stato, perché il privato è “più efficiente” del pubblico; la flessibilità serviva per rendere le imprese più competitive ed attrarre investimenti stranieri; la globalizzazione era un fatto ineluttabile che ci avrebbe arricchito aumentando la concorrenza e quindi riducendo i prezzi (e invece ha ridotto solo i salari); ci avevano raccontato che la finanza avrebbe prodotto ricchezza, e quindi meno regole per banche e speculatori, finalmente liberi di scatenarsi nelle loro creazioni quali derivati, cds, ecc.

E invece eccoci qua: ad affrontare la più grave crisi economica dal 1929, con popoli che fino a qualche anno facevano parte del primo mondo, precipitati in una condizione da terzo mondo.

E il bello di tutto questo è che gli stessi soggetti che 20 anni fa ci hanno portato sulla strada della rovina, invece di scusarsi e ritirarsi in un eremo in meditazione, oggi si propongono ancora come i salvatori della patria (anzi, delle patrie); e il bello è che ci propinano la stessa cura che ci ha portato sul letto di morte, solo a dosi più elevate.

D’altra parte, stando a quello che ci raccontano, non ci sono alternative.

Eppure i risultati fin’ora ottenuti dalle misure del governo sono questi: debito pubblico aumentato, disoccupazione aumentata, cassa integrazione aumentata, crescita negativa (ovvero recessione), aumento generalizzato del costo della vita, una media di un paio di suicidi a settimana (ma in Grecia fanno meglio, ricordiamocelo).

Ma è proprio vero che c’è solo una strada per uscire dalla crisi? E siamo proprio sicuri che le misure adottate siano nell’interesse delle persone?

Perché qualche dubbio è lecito: ci hanno raccontato per decenni che gli aiuti di stato erano severamente vietati, perché contrari ai principi di libera concorrenza; perciò guai, per esempio, a quei paesi che volessero tutelare le proprie imprese con misure protezioniste rispetto ai prodotti cinesi.

Però la più significativa misura anticrisi adottata a livello europeo è stato il maxi prestito al 1% in favore delle banche, un bello schiaffo in faccia ai principi liberisti.

Anche in questo caso, per giustificare l’indegna misura, è stata alzata una fitta cortina fumogena di propaganda: così le banche potranno finanziare famiglie e imprese, ci hanno detto (e non sarebbe stato meglio darli direttamente agli stati questi soldi?).

Risultato: mercato immobiliare fermo perché le banche non erogano mutui e valori in discesa degli immobili (uno dei principali patrimoni degli italiani, di cui dovremo parlare ancora) e finanziamenti alle imprese anch’essi bloccati con conseguenti suicidi tra gli imprenditori (ma ricordiamoci che possiamo ancora permetterci più di un migliaio di suicidi prima di arrivare ai livelli greci).

Di fatto le banche hanno utilizzato quei soldi per altri investimenti, per lo più acquisizione di titoli di stato a tassi di interesse del 6/7%, per tappare un po’ i buchi nei propri bilanci.

Insomma le misure del governo Monti e, più in generale, le misure richieste dall’”eurocrazia”, servono a salvare la gente o servono ad obbligare i singoli paesi a continuare a servire i propri debiti pubblici, ovvero a pagare gli interessi ai creditori internazionali, senza nessuna velleità di voler realmente ridurre tali debiti?

Perché è un fatto noto anche ad un semplice studente di ragioneria che col paese in recessione grazie alle misure imposte dall’Europa e applicate dal governo, è impossibile ridurre il debito (anche le Corte dei Conti ha criticato le misure del governo giudicandole recessive).

Eppure certi dogmi iniziano a scricchiolare e più d’uno inizia ad avanzare soluzioni alternative con cui affrontare la crisi.

Un modo, per esempio, potrebbe essere quello di uscire dall’euro, o almeno creare due euro, uno per i paesi più ricchi (del nord, per intenderci) e uno per quelli più poveri, tra cui l’Italia, con l’”euro sud” svalutato rispetto all’”euro nord”, e dotando così i paesi più in crisi di uno strumento che comporterebbe sì una maggiore inflazione, ma renderebbe questi paesi molto più competitivi e capaci di attirare investimenti che consentirebbero di innescare una crescita positiva (basti pensare che con l’entrata nell’euro, valutato di fatto ai livelli del marco tedesco, l’Italia ha perso nel tempo il 40% di competitività rispetto alla Germania).

Ma ci è sempre stato raccontato che soluzioni del genere sarebbero una vera e propria sciagura; eppure qualcuno è andato a studiarsi la faccenda, scoprendo che forse non è proprio così.

Si tratta di un economista che si chiama Jonathan Tepper, che ha studiato 69 separazioni monetarie avvenute nel 20° secolo, scoprendo come siano state tutt’altro che catastrofiche.

L’economista ha concluso che “l’uscita (dall’euro) è lo strumento più potente per riequilibrare l’Europa e creare la crescita”.

Lo studio è stato ripreso niente meno che dall’Economist, uno dei giornali di riferimento della finanza internazionale, e da sempre difensore dell’Euro; almeno fino alla citazione dello studio di Tepper.

Basti pensare al caso dell’Argentina, che nel 2002 separò la propria moneta dal dollaro; peraltro l’esempio dell’Argentina può essere utile per sfatare anche un altro dogma, quello che vorrebbe come una catastrofe anche il default (il fallimento) di un paese che smette di pagare il proprio debito; secondo quello che ci viene costantemente raccontato, uno stato che facesse default non troverebbe più nessun creditore disponibile; in Argentina non è andata così (il ministro dell’Economia di quegli anni, Roberto Lavagna, ha raccontato come 48 ore dopo l’accordo di ristrutturazione del debito Argentino, banche attratte dal rapporto debito/pil molto basso offrirono prestiti, che il paese rifiutò per non rientrare nel buco nero) e il paese, dopo un paio di anni di pesanti sacrifici, ha ricominciato a crescere a ritmi elevati.

Ancora il 27 aprile un gruppo di economisti tedeschi e francesi si è riunito a Dusseldorf per chiedere all’eurocrazia un’uscita controllata dall’Euro dei paesi europei e il ritorno alle monete nazionali inserite in un meccanismo che ne controlli le fluttuazioni (rivalutazioni e svalutazioni) all’interno di limiti predefiniti (in pratica il vecchio SME).

Tornando ad occuparci di casa nostra, ma la situazione italiana non può non essere letta nel più ampio contesto internazionale, c’è ancora molto da discutere sulle misure adottate dal governo.

In materia di lavoro siamo ancora in attesa di conoscere esattamente quel che ci aspetta, ma la strada imboccata è già molto chiara: sempre più flessibilità, sempre meno tutele per il lavoro e le categorie più deboli (lo stato sociale all’europea è destinato a scomparire, ha sentenziato Draghi); eppure, nonostante la flessibilità introdotta in Italia negli ultimi decenni, i risultati sono stati contrari a quelli che ci avevano garantito: le imprese hanno perso competitività, la disoccupazione è aumentata, i salari sono tra i più bassi d’Europa; in sintesi si è remunerato il capitale in misura superiore al lavoro.

Di particolare gravità l’istituzione dell’Imu: i devastanti effetti di questa nuova tassa potranno essere valutati solo tra giugno e dicembre, quando arriveranno le scadenze di pagamento.

L’imu non rappresenta esclusivamente una tassa, pesantissima; rappresenta un vero e proprio attacco alla casa.

Non è un mistero che certi ambienti finanziari internazionali gradirebbero molto vedere gli italiani smobilitare i propri investimenti nel mattone per mettere i propri soldi nei “mercati”, dove i soliti noti, ovvero i veri responsabili della crisi, avrebbero nuove risorse su cui puntare per potersi arricchire, al solito senza produrre un bel niente di utile per la collettività.

L’imu sembra studiata appositamente per questo fine: la rivalutazione del 60% del valore imponibile, la tassazione anche dalla casa di abitazione e lo scontato aumento della aliquote imposte dai comuni, avrà probabilmente un effetto devastante; il tutto in attesa della riforma del catasto, che forse servirà a dare il colpo di grazia.

Sorvolando sulla propaganda che vorrebbe farci credere che la tassa colpirà soprattutto i ricchi, la realtà è che la maggior parte degli italiani, a differenza di quanto avviene in altri paesi, per motivi culturali ha sempre visto nella casa non solo un investimento sicuro, ma anche lo strumento di unione della famiglia.

Gli italiani, nella stragrande maggioranza, possiedono la casa di abitazione e in genere una casa nel paese di origine; questa è la realtà soprattutto di una città come Roma.

Ora pensate a pensionati a 15.000 euro l’anno, proprietari della casa di abitazione e della casa al paese, quella che hanno comprato per mantenere un collegamento con le proprie origini e la propria famiglia, o che hanno ereditato; con buona probabilità, tra giugno e dicembre, per pagare l’imu dovranno sborsare una somma tra i 1.000 e i 1.500 euro; praticamente una mensilità della pensione, per non parlare delle pensioni più basse.

Il tutto mentre il valore commerciale di questi immobili crolla, perché il mercato è fermo a causa della banche che non emettono mutui e della crisi che certo non favorisce investimenti immobiliari; quindi lo stato aumenta enormemente la tassazione su dei beni i cui valori si riducono.

Quante persone non potranno pagare e si vedranno la casa pignorata da equitalia? Quanti preferiranno vendere e mettere il ricavato della vendita in banca, dove qualcuno proporrà loro qualche felice investimento in titoli parmalat o cirio?

Ma che credibilità può avere poi uno stato che pretende dai propri cittadini i pagamenti subito, spesso in acconto, scatenandogli contro la macchina infernale di equitalia con le sue sanzioni e interessi che triplicano il debito in caso di mancato pagamento, ma che paga i propri debiti nei confronti delle imprese in tempi medi di 6 mesi (senza sanzioni o interessi ovviamente)?

Che sia istituita un’equitalia anche per cittadini e imprese, che possa pignorare i beni dello stato e venderli all’asta in caso di insolvenza; vogliamo anche noi un Befera che minacci i funzionari pubblici e provveda a recuperare i crediti dei cittadini mettendo le ganasce fiscali alle auto blu.

Che credibilità può avere uno stato che vuole il versamento dell’iva anche su quelle fatture che lo stesso Stato non ha saldato?

Sempre più imprese che lavorano su commesse pubbliche sono in sofferenza, sofferenza che si ripercuote sui lavoratori addetti ai servizi in appalto, che spesso subiscono pesanti ritardi nel pagamento degli stipendi ed a volte non li percepiscono affatto.

Eppure rispetto a queste mostruosità nessuna misura adottata.

Nessuna misura adottata rispetto agli sprechi della politica, che non stanno solo nella vergogna dei “rimborsi elettorali” in misura talmente spropositata che gli stessi partiti non sanno che fare dei soldi, ma nel sistema complessivo che comporta costi elevatissimi in tutte le commesse pubbliche, considerando come gli imprenditori che se le aggiudicano, nel costo debbano spesso far rientrare anche la quota da stornare ai politici, a tutto danno del cittadino che deve fruire del servizio ad un costo maggiore.

In conclusione è inaccettabile che si continuino a chiedere sacrifici a coloro che non solo non hanno provocato la crisi, ma che col loro lavoro e con ciò che producono consentono ancora al paese di sopravvivere; forse è ora che i sacrifici li facciano altri, quelli che la crisi l’hanno provocata lucrando sul lavoro degli altri.

E’ ora di tornare ad un’economia più sana, quella che produce cose utili per la gente e non strumenti finanziari che servono a pochi per lucrare sul lavoro di molti.